At
length my eyes, in going the circuit of the room
Nell'estate del 1973 Leonardo Sciascia passò qualche giorno di vacanza nel toscano e rimase piuttosto colpito da un quadro che scoprì nella chiesetta di Castellina in Chianti in provincia di Siena, episodio riferitoci dal pittore Fabrizio Clerici che lo accompagnava.1 Si trattava di una replica esatta di un quadro del seicentesco Rutilio Manetti che è conservato nella chiesa di Sant'Agostino a Siena. La tela rappresenta l'abate Antonio, assorto nella meditazione, al quale s'avvicina il diavolo, per tentarlo. La descrive così il Clerici: "Non urla o ululati, ma un preoccupante mutismo che pone in risalto la solitudine di Antonio, a cui silenziosamente si accosta un satanico giovane dalle corna purpuree. Ma un particolare rende il demone del tutto inusuale. Inforca un paio d'occhiali d'antica foggia, come un tempo portavano i nostri nonni." 2 Sciascia ne rimase fortemente impressionato, e ne troviamo traccia evidente nel romanzo Todo modo del 1974, nel quale il quadro - Le tentazioni di Sant'Antonio - riappare: l'io narratore giunge nella cappella del sconcertante eremo-albergo di don Gaetano, il quale non esita di farglielo notare: "Me lo indicò, e fino a quel momento non lo avevo visto: un santo scuro e barbuto, un librone aperto davanti; e un diavolo dall'espressione tra untuosa e beffarda, le corna rubescenti, come di carne sorticata. Ma quel che più colpiva, del diavolo, era il fatto che aveva gli occhiali: a prince-nez, dalla montatura nera. E anche l'impressione di aver già visto qualcosa di simile, senza ricordare quando e dove, conferiva al diavolo occhialuto un che di misterioso e di pauroso: come l'avessi visto in sogno o nei visionari terrori dell'infanzia." 3 Ne nasce uno dei tanti dialoghi attraverso i quali nel romanzo si disputa il diverbio tra il razionale laicista e il tanto abile quanto impenetrabile uomo della Chiesa. Don Gaetano conclude le sue esposizioni sulla storia del quadro dicendo: ""Un quadro curioso, comunque [
], anche
inquietante
Il diavolo con gli occhiali: quello che voleva dire
il Manetti è abbastanza ovvio, in rapporto al suo tempo; ma oggi
". La scena però culmina nel momento nel quale il prete s'avvicina alla tela per meglio poter leggere la firma del pittore locale che la replica aveva realizzato. Inforca un paio di occhiali ed invita l'ospite ad avvicinarsi: "Quando si voltò per dirmi "C'è la firma, venga a vedere" ebbi un momento di vertiginoso stupore: i suoi occhiali erano una copia esatta di quelli del diavolo." 5 L'inquietudine che il narratore prova è assai profonda, si collegherà al sempre più forte effetto della discrepanza tra ecclesiasmo e diabolicità, uniti nel personaggio di don Gaetano che a sua volta pare di tentare il fermo e disincantato portavoce di laicismo ed illuminismo, tentarlo a lasciar che si rianimino i suoi ben placati desideri religiosi. Ma trattandosi di un testo di Sciascia, poco sorprendentemente anche la vicenda del 'pittore locale' ha per così dire uno sfondo vero. Lo fa riferire a don Gaetano: Niccolò Buttafuoco nel volto del diavolo occhialuto aveva realizzato un autoritratto, autentico persino per quanto riguarda le corna, visto che al pover'uomo erano cresciute in seguito ad una blasfemia contro la Madonna. Ed ecco da dove Sciascia questa leggenda l'ha cavata: da una specie di dizionario di faccende miracolose in Sicilia, pubblicato da un canonico nel pieno Settecento, mentre altrove fioriva l'Illuminismo. L'autore ne parla in Cruciverba: "Tra il dizionario di Bayle e quello di Voltaire, nel sonno della ragione, la Sicilia produceva il suo: di mostri, di superstizioni, di mistiche depravazioni, di mondo alla rovescia. Per aver detto che una madonna che stava dipingendo "allora comincerà a fare miracoli quando cominceranno a nascere le corna su la mia testa", il pittore Niccolò Buttafuoco si portò per tutta la vita due corna somiglianti a zampe di gallina." 6 Ed è così che l'intricato groviglio di raddoppiamenti intorno al quadro è completo: si tratta di una replica conservata nell'Eremo di Zafer (e realmente in Castellina in Chianti), riproduzione di un quadro che si trova a Siena; gli occhiali del prete sono una copia esatta di quelli del diavolo dipinto, che da parte sua si dice sia lo specchio d'uno sfortunato pittore siciliano. Ma ferma rimane l'immagine del diavolo occhialuto, rappresentando un vederci chiaro che a prima vista la Chiesa non può non respingere; in un secondo istante però è anche simbolo di una forte tentazione, una possibile via d'uscita che porta alla verità, una via che si percorre attraverso ciò che si percipisce con la vista: lo scritto, i libri, la conoscenza, la letteratura (e si pensi alle numerosi rappresentazioni di strumenti ottici nell'arte settecentesca, Madame du Châtelet che porge gli occhiali a Voltaire, affinché legga Newton ). La facile connotazione che si riferisce a una persona che porta gli occhiali, quella dell'intellettualità, qui evidentemente pare voluta: Sciascia in veste del diavolo ci presenta l'intellettuale. E pare che questa veste ambigua sia la più adatta
per un accostamento all'autocoscienza intellettuale di Leonardo Sciascia.
Le comode etichette sarebbero facili da trovare, il suo essere scrittore
d'ispirazione illuminista, il suo continuo riferirsi agli autori francesi
sono troppo evidenti, ed anche lui stesso - quando proprio lo si costringeva
a farlo - nel delineamento astratto della sua concezione di sé
non lasciò dubbi sui modelli a cui riferirsi: "Voltaire e
Zola, dunque, ma non Sartre." 7 Seguendo questa
traccia l'attendibilità di tale 'genealogia' intellettuale è
evidente: Voltaire come prototipo dell'agire intellettuale nella neonata
sfera pubblica (che tra l'altro si accoppia al ancora più stimato
Diderot), Zola come simbolo della cosiddetta trasgressione intellettuale
che consiste nell'intervento pubblico a favore d'un individuo al quale
la giustizia viene negata, ed infine Sartre con la sua idea d'una letteratura
partigiana che si unisce interamente alla lotta politica, concezione evidentemente
estranea al racalmutese che in nessun caso si considerava "un maestro
di pensiero". 8 "Di me come individuo, individuo che incidentalmente ha scritto dei libri, vorrei che si dicesse: "Ha contraddetto e si è contraddetto", come a dire che sono stato vivo in mezzo a tante "anime morte", a tanti che non contraddicevano e non si contraddicevano." 9 Al di là delle sempre sospette genealogie e comunque tenendole presenti va quindi considerato piuttosto l'opera letteraria, i libri che quest'uomo 'incidentalmente' ha scritto. Ne L'affaire Moro abbiamo un esempio d'intervento politico che già attraverso il titolo allude ai modelli luminosi francesi, facendo implicitamente riferimento ai destini di Jean Calas e Alfred Dreyfus e in tal modo agli interventi di Voltaire e Zola. Servendosi d'un genuino genere illuminista, il pamphlet, Sciascia nell'istante che precede la sua breve presenza parlamentare, presentò la sua opera più visibilmente politica, un testo con l'evidente intenzione di avvicinarsi all'utopia che collegava alla sua scrittura sin da Le parrocchie di Regalpetra: la credenza che a volte "un colpo vibratile ed esatto della penna basti a ristabilire un diritto, a fugare l'ingiustizia e il sopruso." 10 Nonostante una sottile analisi linguistica che molto deve al lontano amico Pasolini, il messaggio diciamo intellettuale-politico dell'opera è abbastanza facile da percepire; un po' diverso invece il discorso per Il Consiglio d'Egitto, romanzo storico del 1963. Anche qui però il peso del genere scelto: Sciascia sviluppa una concezione di romanzo storico che non solo consiste nell'esigenza d'aver una visione del passato che sia retta da una consapevolezza del nostro presente, ma che inoltre pretende che il passato della narrazione si 'faccia presente', che assuma una funzione precisa per la comprensione degli avvenimenti chiamiamoli nostri. La storia insomma non come spazio temporale ma come prospettiva e piattaforma d'engagement. Ne consegue la salda fede nella letteratura, la con gli anni sempre più presente ossessione dell'autore che sia essa a fare da pettine per sciogliere i nodi dell'esistenza. La letteratura stessa è argomento fondamentale della scrittura sciasciana, la divagazione metaletteraria assai frequente, inserendo se stesso e la sua opera in un'oscillante, duttile, a volte imprevedibile, ma sempre erudita cosmologia letteraria. Infatti, il discorso degli occhiali in Todo modo lui stesso lo riprende, come facendo che l'io narratore anticipi il lavoro critico della ricerca d'agganciamenti storico-culturali di tale motivo: "Chi leggerà questo manoscritto o, se mai sarà pubblicato, questo libro, si domanderà a questo punto perché non ho più parlato degli occhiali di don Gaetano. Ebbene, non ne ho parlato più perché non è vero che non mi avessero impressionato, la prima volta che glieli vidi tirar fuori. O forse allora mi impressionarono meno di quanto poi pensandoci e rivedendoglieli. Certamente, anzi: perché cominciai ad avvertire l'inquietudine che quegli occhiali mi avevano seminato nel momento in cui, nella mia camera, mi ritrovai a disegnarli. Più volte, sullo stesso foglio; sicché ne venne un campo di occhiali come di meloni: grandi, piccoli, appena accennati, vuoti di lenti, con le lenti; e qualcuno con dietro gli occhi senza sguardo di don Gateano. Uno strano disegno, tra quelli che faccio di solito: e chi lo vedesse senza conoscere queste pagine, forse penserebbe sia venuto fuori in margine a una lettura di Spinoza, che fabbricava occhiali di quel tipo; o che fossi rimasto impressionato degli occhiali di don Antonio de Solis, in quel ritratto che adorna il frontespizio della edizione settecentesca della sua Istoria della conquista del Messico; o che avessi studiato di illustrare i versi di quel poeta arabo-siculo sulle lenti. Ed ecco che in questo momento, mentre scrivo, il fatto di ricordare queste immagini (immagini vere e immagini di parole) mi sorprende e aggiunge inquietudine all'inquietudine. Com'è che così nitidamente ricordo il ritratto di don Antonio e i versi di Ibn Hamdis? Non c'è qualcosa, nelle lenti, negli occhiali, che mi suscita, remoto, imprecisabile, un senso di stupore e insieme di apprensione? Non c'è qualcosa che ha a che fare con la verità e con la paura di scoprirla? (E sto anche pensando a quel racconto di Anna Maria Ortese che appunto s'intitola Un paio di occhiali: della bambina di vista debolissima cui danno finalmente gli occhiali; e la miseria del vicolo napoletano in cui vive le balza improvvisamente incontro, le provoca vertigine e vomito)." 11 Ed è proprio disegnando che il pittore poco più
tardi intenderà la soluzione dell'enigma criminalistico, sviluppando
un'ipotesi "come il cavaliere Carlo Augusto Dupin sviluppa le sue
nei racconti di Poe". 12 Eccola di nuovo, La
lettera rubata di Edgar Allan Poe 13 - Sciascia ripetutamente
ci fa riferimento, affascinato dalla "grande trovata dell'invisibilità
per eccesso di visibilità" 14 come dirà
in A futura memoria. Nel saggio sulla Storia del romanzo poliziesco
i testi di Poe li considera non meno che "perfetti",15
la perfezione de La lettera rubata consisterebbe nel fatto che
l'autore in questo racconto poliziesco "può anche fare a meno
del morto". 16 E così come - nell'interpretazione
di Sciascia - per Dupin, visto che il delitto perfetto non può
esistere (perché "la soluzione non può non esserci")
17 l'esistenza stessa corrisponde al delitto perfetto
e quindi alla prova dell'esistenza di Dio, in tal modo gli intrecci criminali
nei gialli di Sciascia, che non sono gialli come Calvino giustamente annotò,18
sono lo spunto di parlare di ben'altro: infine non è mai il delitto
stesso e la sua soluzione intorno al quale si costruisce ciò su
cui questi suoi romanzi 'veramente' riflettono. Infatti, in un'intervista
Sciascia afferma che nella concezione dei suoi romanzi la sua attenzione
si riferisce più che altro alle circostanze, "alle condizioni
da cui scatterà il delitto, alle condizioni che contengono già
il delitto." 19
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